Seminario spinoziano: “Spinoza personaggio letterario”, seconda parte.
Giovedì 3 gennaio 2013 presso la Libreria LiberaMente di Brindisi abbiamo proseguito i lavori del seminario dedicato a Spinoza personaggio letterario iniziati lo scorso ottobre al Fondo Verri di Lecce e di cui abbiamo dato notizia su queste pagine.
Lo spazio di corso Roma 30 si è progessivamente riempito intorno alle 18 quando abbiamo iniziato ad introdurre le ragioni dell’evento (che Giovanni Croce illustra nell’intervista rilasciata a PugliaTV di cui nel video sul canale YouTube del Foglio Spinoziano) ed abbiamo registrato una molto gradita quanto inaspettata attenzione da parte dell’eterogeneo pubblico: ragazzi e ragazze, giornalisti e professionisti con quaderni alla mano, hanno partecipato all’iniziativa, il cui fine era di introdurre al pensiero di Spinoza attraverso alcuni romanzi e racconti che vedono il filosofo come protagonista dell’intreccio narrativo.
Una nota che caratterizza molte voci della letteratura contemporanea a noi più o meno prossima e che abbiamo deciso di evidenziare con un progetto editoriale e divulgativo.
E così, dopo una breve ed anedottica introduzione alla vita e alle radici del pensiero di Spinoza, (dalla provenienza ebraica al periodo di apprendimento alla Talmud Torah con il rabbino Saul Levi Mortera alla frequentazione della “accademia” di Franciscus van den Enden) abbiamo iniziato ad elucidarne il movimento attraverso le tre narrazioni in cui esso si manifesta.
Il Tractus de Intellectus Emendatione è motivo di rinascita alla fede nella vita per il protagonista del romanzo di Leon de Winter, Una fame senza fine, e la lettura di quel primo frammento quasi autobiografico acquista luce e vividezza nel confronto con la trama.
Thriller filosofico, la narrazione segue le drammatiche vicende di Felix Hoffman, un “nichilista del ventesimo secolo”, come ama autodefinirsi, un ebreo orfano della Shoah, adottato da una famiglia cattolica e cresciuto in una piccola città olandese.
Il matrimonio con una bella donna lo rende “delirevolmente felice” e ancora di più la nascita di due “non identiche” gemelle, anche se la sua carriera diplomatica non è esattamente quello che si dice brillante. L’incantesimo della felicità, tuttavia, viene spezzato quasi subito: la leucemia trasforma una delle due gemelle, Esther, in una “piccola anziana dagli occhi gentili” a soli otto anni, fino a quando il destino se la porterà via.
E dal giorno di quella morte Hoffman diviene “prigioniero di se stesso”: per le successive due decadi non riuscirà più a dormire e nelle notti solitarie inizia a mangiare voracemente, “demolendo piatti colmi di cibo con fame rapace”. L’autocontrollo è una chimera che si porta via matrimonio, carriera, salute, e anche la seconda figlia che morirà di overdose dopo essere scivolata nel mondo della pornografia. Il giorno in cui Hoffmann viene nominato ambasciatore olandese a Praga, pochi mesi prima del crollo dei regimi comunisti, non è altro che “un alcolista insonne e bulimico cronico che ha eretto una fortezza per continuare ad esistere”. Le notti praghesi continua a trascorrerle insonni ma leggendo il “trattatello” spinoziano del 1662 che ha trovato nel solaio dell’ambasciata. La battaglia con il difficile libretto lo porta alla conclusione che ciò che Spinoza vuole raggiungere è l’invenzione di un metodo capace di “provvedere una conoscenza perfetta e indicare una via per la più suprema saggezza”. Il che significa, per Hoffman, comprendere la conoscenza finale lasciata aperta da Esther:
“Va tutto bene papà, davvero”
“Non andrà meglio fino a che tu non starai meglio”
“No. Lasciami stare così. Lo so”
“Che cosa sai tesoro?”
Lei sorrise, da qualche parte oltre il dolore.
“Lo so, papà”
“Ma cosa, Esther? Cosa sai?”
Lo disse ancora, appena udibile questa volta. “Lo so, papà…”.
Esther muore prima di poter dire a suo padre che cosa sa, e Hoffman rimane sveglio per vent’anni cercando di capire quelle ultime parole.
Il romanzo segue l’andamento del trattato: dopo un capitolo che introduce al subplot ovvero la narrazione parallela a quella di un mainplot che narra le vicende di uomini che tradiscono il loro paese, il racconto si apre con il primo paragrafo del trattatello, e nel momento in cui Hoffman ne completa la lettura, cinque mesi più tardi, o meglio, quando realizza che Spinoza lo ha lasciato incompiuto, la sua storia è quasi finita, eccetto per una coda finale nell’ultimo capitolo.
Il testo spinoziano “gli appare improvvisamente come una sorta di liturgia” e, se il grande filosofo è andato alla ricerca della verità ultima, Hoffman da parte sua cerca di capire come può l’uomo laico ricominciare a pregare. Lui che non è un credente, ma sa che deve pregare per silenziare la “stupidità” e l’“egoismo” della sua fame ventennale, lui che deve “pregare senza credere”.
La duplice redazione dell’Ethica e del Tractatus Theologico-Politicus e l’andamento geometrico-fenomenologico che la caratterizza, invece, viene ampiamente definita nel più recente romanzo di Irvin Yalom, Il problema Spinoza, di cui rimandiamo alla recensione su queste pagine, ma che qui completiamo invitando alla lettura (o alla rilettura) del racconto di Isaac B. Singer, Lo Spinoza di Market Street, con il quale chiudere il cerchio nella adesione “mistico-mondana” al divino da parte del dottor Nahum Fischelson.
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