Relazione sul seminario “Strategie dell’immaginario: la religione tra morale e politica nel Trattato teologico-politico di Spinoza.”
Il 14 febbraio si è svolto all’Università Roma Tre il seminario dal titolo “Strategie dell’immaginario: la religione tra morale e politica nel Trattato teologico-politico di Spinoza”.
Quest’iniziativa ha potuto contare sulla partecipazione di Roberto Finelli, docente di storia della filosofia a Roma3, Stefano Visentin, docente di storia delle dottrine politiche a Urbino, e Pina Totaro, ricercatrice presso l’ILIESI-CNR dell’università La Sapienza, dei dottori Roberto Evangelista (Università Federico II), Francesco Toto (Università Roma3-ENS Lyon) ed Andrea Sangiacomo (University of Groningen), nonché di diversi studenti.
Il seminario ha saputo dar luogo a dibattiti di raro interesse, che hanno unito la precisione terminologica e il rigore d’analisi del testo spinoziano all’attenzione puntuale alle tematiche contemporanee di maggior discussione. Si è trattato, dunque, di un’esperienza positiva e costruttiva, lontana dagli specialisti accademici che spesso scoraggiano il lettore “profano”, aperta invece a considerazioni sull’attualità e, quindi, sull’utilizzabilità del pensiero spinoziano.
La tematica del seminario, d’altro canto, si prestava esattamente a questo tipo di “doppia lettura”: il tema dell’immaginario nel Trattato teologico-politico può considerarsi il frutto di una disamina storica, da parte dell’autore, del proprio contesto socio-politico, ma affonda simultaneamente le proprie radici epistemologiche in alcuni tratti naturali dell’umano comprendere e sentire e consente, dunque, un’analisi meta-storica del suo sviluppo e dei suoi effetti.
Il primo intervento, tenuto da Roberto Evangelista e intitolato Alienazione religiosa e figure della politica. Spinoza tra ebraismo e cristianesimo, ha sottolineato il rapporto intercorrente tra ebraismo e cristianesimo e il significato dell’“elezione ebraica”. Dopo aver ricordato i tre desideri onesti dell’uomo, e cioè conoscere le cause prime, dominare le passioni e vivere in salute e sicurezza, ha sottolineato che, se la soddisfazione dei primi due desideri dipende da quello che si può chiamare “aiuto interno di Dio”, in quanto dipende dalla nostra stessa potenza, quella dell’ultimo dipende invece da un “aiuto esterno di Dio”, in quanto non può che dipendere da fatti a noi, quantomeno parzialmente, esterni. Poiché il popolo ebraico è privo della conoscenza delle cause prime, perciò rozzo e ignorante, esso ha scambiato l’esteriorità del terzo desiderio (non dipende del tutto dalla nostra azione) con la sua contingenza (non dipende assolutamente dalla nostra azione ed è casuale). Di qui, il vivere in sicurezza ed in salute diventa un fatto di fortuna, da demandare ad altri; esso può essere garantito unicamente da un Dio onnipotente ed unico, tale da poter destare ammirazione e devozione ed agire secondo fini imperscrutabili. Perciò, il significato profondo dell’elezione ebraica andrebbe individuato proprio in questa dialettica interno-esterno, nella loro reciproca correlazione e disgiunzione, che, se è correttamente intesa dall’uomo filosofo, è ingiustamente polarizzata dal popolo ebraico, consentendo dunque l’esteriorizzazione, la separazione del nesso uomo-natura. Lo stesso Dio, fallacemente separato dalla Natura, può essere e rimanere al comando di questa struttura di sicurezza unicamente a condizione di essere pensato come puro trascendente, come puro Altro; il Dio ebraico, unico vero capo riconosciuto, dev’essere radicalmente separato dall’umano e, solo in quanto tale, può dare comandi che siano assoluti. Realizzatesi queste condizioni, nel popolo ebraico si effettua realmente una manipolazione affettiva, che ha come risultato la stabilizzazione del circolo emotivo, garantendo dunque la sicurezza cercata, ma non solo. La peculiare organizzazione ebraica garantisce anche la coesione interna, nella concentrazione affettiva derivante dalla devozione e dalla ripetizione del rito, e consente anche l’ esprimersi di una dinamica democratica, basata sull’uguaglianza degli uomini, a propria volta determinata dall’ontologica eterogeneità del Dio.
Il cristianesimo nella sua portata rivoluzionaria ha scardinato tre dei fondamentali assunti della religione ebraica: 1) ha sostituito l’universalità del messaggio alla precedente particolarità (rendendo il concetto di “elezione” inutilizzabile; 2) è impolitico, contrario alla totale politicizzazione dell’ebraismo e 3) sostituisce all’esteriorizzazione della ricerca della verità, la sua interiorizzazione. In particolare, secondo il relatore, il cristianesimo, sebbene non possa considerarsi una forma conclusiva o scevra di contraddizioni, si rivela come la possibilità reale di un’evoluzione nella comprensione della realtà e dei suoi nessi necessari.
La discussione successiva è stata tesa a problematizzare l’affermazione del relatore per cui il secondo punto sopra menzionato costituirebbe un’interessante esempio dei concetti di potestas e potentia in Spinoza, stabilendo l’eccedenza della seconda rispetto alla prima. In particolare, il problema diventa evidente allorché, ammettendo questa distinzione, si cerchi di comprendere come e in qual modo si manifesti la potenza inespressa, incompresa dalle istituzioni. Un altro dubbio è stato posto sul carattere generico che il relatore individua nell’essenza spinoziana; se, infatti la potenza è propria della natura umana in generale, diventa complesso identificare i soggetti particolari, portatori anch’essi, come sappiamo, di un conatus sese conservandi.
Il secondo intervento, di Stefano Visentin e dal titolo Hodie nullos habemus prophetas: Spinoza, i Collegianti e la Repubblica è stato un’analisi contemporaneamente storica e testuale dell’opera spinoziana. Il relatore, dopo aver inizialmente distinto tra profezia e filosofia attraverso la chiarificazione dei loro modi di comunicare e comunicarsi, immaginativo nel primo caso e razionale nel secondo, è passato a cercare di comprendere il perché dell’affermazione spinoziana “oggi non ci sono profeti”. L’obiettivo polemico spinoziano è naturalmente costituito dai Praedikanten, i teologici calvinisti olandesi che miravano ad ottenere maggiore potere politico, legittimando tale richiesta attraverso il richiamo all’autorità divina. Anche per delegittimare tali pretese, la metodologia d’analisi spinoziana è volta ad una radicale naturalizzazione del testo biblico.
L’assenza di profeti è da imputarsi a due cause fondamentali: 1) il cambiamento imposto dal cristianesimo, che impartisce insegnamenti universali e comunica non solo sul livello immaginativo, ma anche razionale, a seconda della disposizione dell’ascoltatore; 2) dalle mutate condizioni storiche: uno stato come quello ebraico, nella sua particolarità e separatezza, non poteva essere pensabile nell’Olanda del seicento, porto e mercato d’Europa. Il relatore è passato poi a spiegare la differenza tra veri e falsi profeti, indicando negli apostoli una figura rivoluzionaria che, se parla per ispirazione profetica attraverso un linguaggio immaginativo, si nutre tuttavia del riconoscimento collettivo. La figura stessa dell’apostolo, dunque, scardina alla base il discorso profetico trascendente, svincolato, assoluto, proprio della religiosità ebraica. Il relatore ha infine proposto un’identificazione storica per i “nuovi apostoli” nella setta dei Collegianti, fondata nel 1619 a Warmond da Gijsbert van der Kodde. La setta collegiante praticava la libera profezia, cioè una lettura sociale della Scrittura, ove ognuno poteva esprimere la propria opinione sul testo. Al di là del contenuto storico precipuo, il relatore pensa di poter identificare in questo movimento un elemento di connessione con la conoscenza adeguata spinoziana, poiché sottende l’idea che la ricerca della verità sia un percorso collettivo e si fondi sul confronto. In questo senso la “libera profezia” sarebbe la concrezione religiosa del principio della libera Res Publica.
Andrea Sangiacomo ha curato il terzo intervento dal titolo La virtù del profeta: ragioni e passioni nel Trattato Teologico-Politico di Spinoza. Il nodo critico è costituito da una domanda “come possono i profeti essere virtuosi, senza conoscere adeguatamente?”, e dalla conseguente “esiste dunque virtù, senza conoscenza adeguata?”. Dopo aver distinto la propria posizione da quelle opposte di Strauss e Fraenkel il relatore ha identificato due circoli affettivi presenti nella politica spinoziana, di cui uno virtuoso e uno vizioso, sebbene entrambi immaginativi. Il circolo vizioso è determinato dal fatto che, nella compagine ebraica, dunque in assenza di conoscenze certe stabili, a prevalere sia la fluctuatio animi tra paura e speranza. Su questo stato affettivo, si innesta l’ammirazione rispetto a quel singolare e unico che è Dio; questa viene successivamente fissata, cioè stabilizzata, nella forma della superstizione, con riti e cerimonie. Al mutare delle condizioni esterne, tuttavia, essendo questa stabilizzazione puramente fortuita, si precipiterà nuovamente nella fluctuatio animi. A questo punto intervengono i profeti che, attraverso la virtù morale ineccepibile di cui sono portatori dirottano, per così dire, il meccanismo affettivo, associando all’ammirazione per le qualità morali, l’amore per il Dio supremo e misericordioso, e creando devozione e instillando, infine, il desiderio di imitare questo comportamento. Dall’ammirazione della misericordia divina e della virtù dei profeti, in altri termini, si passerebbe all’imitazione di questo sentimento, determinando, quindi, ordine ed obbedienza nello stato.
Ma dove si inserisce, allora, la conoscenza adeguata? È davvero sufficiente quella immaginativa, come sembrerebbe suggerire quest’argomentazione? Secondo Sangiacomo è necessario distinguere, per dar ragione di questo problema, due sensi di legge divina: il primo assoluto, il secondo relativo. In altre parole, nel primo senso la conoscenza adeguata di Dio rappresenta il sommo bene ed è attuata direttamente mediante l’emendazione dell’intelletto. Nel secondo, essa prescrive i mezzi attraverso i quali la speculazione – così come la convivenza civile – è favorita indirettamente, attraverso l’incremento degli affetti positivi e la contemporanea riduzione di quelli negativi. In questo senso, il profeta può definirsi virtuoso in senso strumentale, pur mancando di conoscenza speculativa, poiché la sua azione rientra tra i mezzi approntati dalla medesima legge divina per favorire e incrementare la conoscenza.
La discussione, in questo caso, si è incentrata inizialmente sulla possibilità della virtù priva della conoscenza, insistendo in particolare sul concetto di libertà. In uno stato siffatto (circolo virtuoso positivo) gli uomini sono effettivamente liberi? A questo il relatore risponde ribadendo la l’interpretazione gradualista sottesa all’intervento; se non vi sono o ignoranza o conoscenza ma vi è solo transitio tra l’una e l’altra, un’ampia scala di grigi, allora si può pensare che vi siano gradi di libertà e consapevolezza.
L’intervento finale, di Francesco Toto, recava il titolo Ammirazione e riconoscimento e si è centrato sulla possibilità di rintracciare in Spinoza il precursore del concetto di riconoscimento, contrariamente a quanto sostenuto da studiosi di rilievo com Honneth e Taylor, per i quali una prima configurazione di identità relazionale si potrebbe far risalire, al massimo, a Rousseau. Il concetto di riconoscimento, secondo il relatore, può essere considerato tra l’altro a partire dai meccanismi affettivi innescati dall’ammirazione e dal disprezzo in un rapporto di riconoscimento sia verticale (Dio-uomo) che orizzontale (uomo-uomo). In questo senso, se il concetto di riconoscimento apre ad un’identità non lineare e monolitica, contemporaneamente comprende e spiega i rapporti di potere dominanti. La dinamica di riconoscimento trova all’interno del Trattato teologico-politico la propria scaturigine nell’ammirazione e nell’uso politico-manipolativo che di questo sentimento si fa; esso è alla base dei miracoli e della profezia ed ha come effetto pratico quello della devozione. Il potere politico è così determinato e legittimato dalla potenza di Dio, immaginativamente pensato come essere straordinario, singolare e prodigioso, a cui gli esseri umani si sottomettono volentieri; esseri che mai acconsentirebbero ad essere servi dei propri uguali possono asservirsi spontaneamente a un sovrano interpretato come superiore, super-umano. La manipolazione del sentimento d’ammirazione mira dunque a creare una compagine statale stabile, basata fondamentalmente sull’ammirazione di sé contemporanea al disprezzo dell’altro e sulla volontà (brama, ambizione) di convincere gli altri della giustezza di questa definizione. L’obiettivo, dunque, è il consenso.
Contemporaneamente alla giustificazione e, quindi, alla cristallizzazione del rapporto di potere, il meccanismo immaginativo, nelle vesti dell’ammirazione, contribuisce anche a creare contro-poteri; il concetto di riconoscimento si ritrova qui nella sua pienezza, come modello dell’inter-soggettività costantemente esposta al conflitto, non pacificata.
Le obiezioni a questa relazione sono state diverse; in primo luogo si è discusso della possibilità di identificare in Spinoza un “diritto alla resistenza”, come sembrerebbe suggerire la fine del capitolo XX. In secondo luogo, si è messa in dubbio la “totale relazionalità” del singolo spinoziano: il concetto di riconoscimento può effettivamente esaurire la forma della soggettività? In questo senso, le posizioni sono state divise tra la possibilità di una ratio aurea, istituita dalla definizione di individuo del trattatello di fisica dell’Etica e, quindi, di matrice essenzialmente corporea-individuale, e la possibilità, invece, di radicare il processo di riconoscimento nella determinazione fondamentale dell’individualità.
Risulta a chi scrive evidente come molti concetti e modelli interpretativi si siano fusi, correlati e scontrati durante questo dibattito, ma che delle conclusioni possano esserne univocamente tratte: il bisogno di proseguire lo studio sul tema dell’immaginazione e della manipolazione degli affetti che ha, tutt’oggi, un grande peso nella determinazione degli equilibri politici e sociali, nonché nelle dinamiche di identificazione individuali. Ugualmente, il tema dell’identità personale, anche conseguentemente alle nuove scoperte della psicologia e delle neuro-scienze, pone nuovi interrogativi e la ricerca di soluzioni può (e deve) avvalersi anche di strumenti come la ricerca storiografica. Allo stesso modo, la consapevolezza di vivere in un mondo allargato, com’era poi quello di Spinoza, impone una riflessione cauta e attenta sui modi di relazionarsi tra uomini e culture, per poter evitare, se possibile, le infauste conseguenze dei pregiudizi, asylum ignorantiae.
Dott.ssa Marta Libertà De Bastiani
Aggiornamento: un altro articolo a riguardo è su Spinoza’s lumen naturalis
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