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Recensione: “L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza.” di Francesco Toto: interventi.

Written by Foglio Spinoziano on . Posted in d'amico, Etica, mariani, toto

Durante il Quarto Incontro della Societas Spinozana, svoltosi a Roma il 22 Dicembre 2015 si è presentato il libro di Francesco Toto L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza.” pubblicato dalla casa editrice Mimesis (2015). La presentazione ha visto alcuni esponenti della Societas Spinozana presentare e chiedere all’Autore, presente anch’esso, alcune delucidazioni filosofiche. I seguenti interventi sono stati scritti; gli altri sono stati comunicati solo verbalmente.

Intervento di Daniele D’Amico alla presentazione del libro di F. Toto, L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza.
Roma, 22 dicembre 2015

 

Nel breve capitolo IX, che funge un po’ da premessa e base per tutta la Sezione III del libro, dedicata ai concetti di fabrica e constitutio, Toto si sofferma su come debba intendersi l’uomo, in che modo si possa parlare coerentemente dunque di un’antropologia spinoziana, e qual è il suo statuto nell’Ethica e in più in generale nello spinozismo. Toto identifica due fondamentali atteggiamenti. Un primo modo consiste nel constatare l’effettiva presenza di un’antropologia spinoziana, sia attraverso lo scarto presente tra il conatus e la cupiditas (che, per autori come Balibar, Spinoza riserverebbe soltanto agli esseri umani), sia dalla capacità – propriamente umana – di godere della conoscenza e dell’amore intellettuale di Dio (p. 304). Il secondo fa capo all’atteggiamento, prevalente negli studi spinoziani, dove «una scienza dell’uomo non è che un’illusione», facendo dell’antropologia qualcosa di possibile soltanto nella «forma negativa di una riflessione critica sull’ideologia antropologica, come scienza non dell’uomo, ma delle sue illusioni» (p. 306).  Seguono questa impostazione tutte quelle filosofie della differenza (a cui l’Autore dedica uno spazio a parte) che, negando in assoluto una specificità alla natura umana, finiscono per decostruire ogni residuo d’identità e di soggettività nella filosofia spinoziana, radicalizzando il concetto di immanenza e facendo dei modi l’unica realtà concreta della sostanza. In questo modo diviene impossibile una nozione che distingua la natura umana separatamente dagli individui stessi. Così, «all’inquietante immagine di uno Spinoza-Parmenide tanto cara all’idealismo, si sostituisce la non meno inquietante immagine di uno Spinoza-Eraclito, che rischia di trovarsi priva di quella razionalità, di quella legalità, di quel logos secondo il quale, per Eraclito, “tutte le cose accadono”». Identificata la sostanza con un divenire in cui è dissolta «ogni fissità», non si vede come possa l’individuo, pensato come permanenza nel mutamento» rimanere saldo in se stesso e non essere esso pure trascinato e «dissolto nel vortice di una differenziazione che non lascia spazio a identificazione alcuna» (p. 310). Toto si tiene lontano da entrambi questi atteggiamenti e tenta una ricognizione antropologica le cui esigenze sono primariamente quelle di dare una certa specificità  all’umano, senza esaurire però il senso di ogni singolarità specifica. Ora, per Toto, la sede principale in cui Spinoza delinea la sua antropologia, è l’excursus di fisica dopo E2p13, il cui  scopo «è quello di costruire una comprensione del corpo e della mente – e dunque dell’uomo come unità di entrambi – indipendente da ogni presupposta conoscenza della loro natura» (p. 26). «La mente umana è innanzitutto sentire» (p. 25), e ciò che noi sentiamo primariamente è il nostro corpo, ed essendo «l’uomo un individuo che consta di una mente e di un corpo, la conoscenza del corpo è quindi unitariamente non solo conoscenza della mente, ma anche, al contempo, conoscenza della mente e dell’uomo come essere corporeo e mentale» (p. 31). Il trattatello di fisica provvede alla «costruzione di un’antropologia capace di parlare sensatamente di natura umana facendo a meno di ogni definizione essenzialistica dell’uomo» (p. 31), cercando di dare una lettura positiva dell’antropologia, ricorrendo più alla fisica che alla metafisica. Esiste infatti secondo l’Autore un’essenza generale condivisa da tutti i corpi della stessa specie, la quale non indica nulla di determinato ma solo un campo di possibilità e capacità condiviso da un certo gruppo più o meno esteso di individui. L’essenza del corpo e della mente è nella sua genericità uguale in tutti gli uomini, ma solo finché viene considerata assolutamente in sé sola, definendo tutto ciò che può seguire dalla loro natura (lasciando dunque da parte le circostanze concrete dalle quali la comune natura umana deve essere determinata) e se cioè «l’eventuale realizzazione di queste possibilità segua da quella natura come dalla propria causa inadeguata o adeguata» (pp. 352-3). «Il fatto di non avere in sé la causa o ragione della propria essenza e di dipendere quindi da condizioni esterne per la propria effettiva realizzazione, consente alla natura umana di essere una sola e la medesima in ognuno dei molteplici uomini attualmente esistenti. L’essenza dell’uomo deve essere dunque un’essenza specifica, e non individuale, suscettibile di una molteplicità di attualizzazioni numericamente distinte le cui identità individuali, con le loro reciproche differenze, non possono derivare in maniera immediata da una natura che è loro comune» (p. 311). Insomma, senza esistenza è impossibile determinare la natura specifica di quel dato individuo. Ogni specificità è affidata sempre e solo al dato esistenziale e mai a quello essenziale. Tuttavia, l’essenza attuale dell’uomo può essere compresa solo a partire da quelle invarianti che definiscono la natura umana nella sua generalità (p. 411).

In questo alternarsi tra singolarità e generalità, tutta la Sezione Terza cerca proprio di determinare e chiarire da vicino questo rapporto dal punto di vista della corporeità. L’idea fondamentale è quella che non vede essenze da una parte e cose da un’altra, ma l’esistenza delle sole res singulares, così da assoggettare le essenze alla temporalità e al mutamento. Analogamente accade per il tempo e l’eternità, dove quest’ultima, piuttosto che essere un termine opposto al primo, diviene un modo diverso d’intendere la temporalità, intesa piuttosto come «un durare che si manifesta a una comprensione adeguata come necessario ed eterno». (p. 397). La mente che dura e immagina e la mente che vive in eterno sono la stessa mente. La distinzione tra parte eterna e parte peritura non distingue «la permanenza dell’essenza e la transitorietà degli accidenti, ma due insieme di idee ugualmente mutevoli, ognuno dei quali appartiene a pari titolo alla mutevole essenza attuale della mente» (p. 396). In questo modo, quella parte eterna della mente di cui si parla in E5P23 (che coincide con l’intelletto) non è una porzione d’eternità sottratta al divenire ma è anch’essa inserita all’interno di un processo di generazione e corruzione. Di noi, dunque, dopo la morte, non resta propriamente nulla perché dove non c’è tempo non può esservi nemmeno continuazione dell’esistenza. Noi possiamo considerarci eterni, dunque, non malgrado la nostra finitezza e la nostra mortalità, ma solo nella misura in cui godiamo di questa finitezza e mortalità (p. 398).

Il problema sul quale si sofferma poi giustamente l’Autore è quello del rapporto tra la singolarità delle essenze e la loro generalità, e come questa sia possibile senza cadere in contraddizione e mantenendo integra una data identità individuale. La genericità serve a spiegare soltanto (come nel caso degli affetti) una certa modalità affettiva che si rileva costante in individui che condividono la stessa natura: «la differenza tra natura umana e natura equina spiega quella tra le pulsioni dell’uomo e del cavallo esattamente allo stesso modo in cui la causa spiega l’effetto: non è per via della diversità dei loro affetti che Pietro e Bucefalo sono l’uno un uomo e l’altro un cavallo, ma per via dell’eterogeneità tra natura umana ed equina che essi sono presi da affetti e desideri diversi». (p. 402). Questa generalità non spiega mai le modalità con cui le singole cose si determinano ad agire e a operare, ma pone soltanto l’esistenza di leggi che regolano certe dinamiche, o «una legalità costante e condivisa» (p. 411). Esiste dunque una diversità affettiva che fa da spartiacque tra un’essenza generale e l’essenza attuale di quel dato modo, diversità affettiva a cui infine tutto è ricondotto. In uno degli ultimi paragrafi del libro, si mostra infatti come l’essenza attuale altro non sia che una certa costituzione affettiva, la quale si impone come unico fattore in grado di identificare un modo piuttosto che un altro: l’essenza attuale tende dunque col tempo a sostituire quella di essenza tout court (p. 410). Nel caso del poeta spagnolo e del bambino, su cui ci si sofferma nell’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo, emerge prima di tutto l’esistenza di una certa identità individuale che va tenuta ferma; in secondo luogo la natura di questa identità, la quale «non dipende da certe proprietà innate implicite nella generale natura di uomini e condivise perciò con qualche altro esponente della specie umana, ma dal coacervo di caratteri avventizi che accomuna la loro natura attuale distinguendola da quella dei membri di altri gruppi» (p. 428). Si parla piuttosto di un’identità comune, più che di identità individuale, come la lingua materna, dei costumi o delle leggi, o anche «l’abitudine, il fissarsi delle attitudini e delle disposizioni» (p. 428). Ma è soprattutto l’amor erga Deum ciò che è in grado di mantenere in maniera più stabile una certa identità. Per concludere, sono sempre e solo gli affetti e le infinite variazioni che questi vanno a costituire la cifra tipica di come Toto legge Spinoza, e anche ciò che determina, in ultimo, il carattere individuale di ogni uomo, costruendo così un’identità in divenire, nella quale permanenza e mutazione non sono più separate (p. 429).

Intervento di Saverio Mariani alla presentazione del libro di F. Toto, L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza.
Roma, 22 dicembre 2015

 

1. Nella Sezione II, al capitolo 5, là dove si tematizza il concetto di spontaneità in Spinoza – concetto precedentemente analizzato nei due autori che fungono costantemente da richiamo e paragone, Descartes ed Hobbes –, la parabola storica va dai PPC all’Etica. Relativamente all’Etica, in quella sede, l’Autore si chiede se non sia utile, nell’economia dello studio generale dell’opera, un’analisi non solamente sincronica, ma anche diacronica. Facendo così si andrebbero a valutare, anche a livello linguistico, l’evoluzione e il divenire di alcuni concetti e lemmi utilizzate da Spinoza.

Per motivi storici e per l’utilizzo di un linguaggio classico, totalmente svuotato però del suo significato usuale, credo che questa puntualizzazione dell’autore sia adeguata al fine di evitare che l’Etica rimanga una «cattedrale di ghiaccio», come ha scritto Guido Ceronetti. Una lettura diacronica e insieme intrecciata, interconnessa, fatta di rimandi continui a proposizioni, scoli e dimostrazioni di altre parti dell’opera, sono fondamentali affinché l’Etica possa realmente dirci qualcosa. Del resto, come ha scritto Giorgio Colli: «l’Etica richiede lettori non pigri, discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro: svela l’enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due doni che nessuno può disprezzare».

2. Ho, inoltre, personalmente apprezzato l’attenzione dedicata al sonno. In primo luogo perché quelli sono temi che sembrano essere considerati come “secondari”, in Spinoza; e poi perché in realtà, secondo me, dimostrano come Spinoza abbia voluto incastrare all’interno di argomentazioni più alte e intellettuali, anche l’analisi di manifestazioni vitali e così usuali che spesso passano inosservate.

3. Ed è proprio riagganciandomi a quest’ultima puntualizzazione, ovvero al ruolo della vita e del suo manifestarsi nel tempo, nella durata, che vorrei brevemente trattare dell’ultimo capitolo e della conclusione del libro di Francesco Toto. Nel capitolo 12, alla luce di tutte le acquisizioni alle quali il libro ha condotto, l’Autore può affermare che nell’affettività (dico molto brutalmente, per sintesi) incontriamo sia la polarità cognitiva che pratica. Ovvero, nell’uomo l’interpretazione immaginaria della realtà è sempre determinata da fattori cognitivi e pratici, in una continuità inscindibile. In una riscrittura della constitutio, da parte delle modificazioni e delle reazioni a quelle modificazioni, che fanno molto pensare alle ricerche che le neuroscienze stanno portando avanti in questi anni, apro una piccola parentesi: secondo una certa teoria cognitiva abbastanza diffusa nel campo delle neuroscienze e che si fonda su dati empirico-clinici, ogni percezione del mondo esterno è modificata, e modifica – in un circolo inseparabile – in modo più o meno determinante, tutta la nostra memoria e i dati che vi sono archiviati. Su questo, filosoficamente, Spinoza appare come uno dei riferimenti storici a cui i neurobiologi posso richiamarsi. Tuttavia, tornando a Spinoza, dice l’Autore: il rischio che si corre affermando ciò è quello di trovarsi di fronte ad una constitutio dell’uomo che sia un’identità mai data, una singolarità che realmente non ha nulla di omogeneo e di “spendibile” sul piano politico.

 4. La successiva analisi di essenza attuale ed essenza, o di cosa ed essenza, nella dimostrazione della loro frantumazione tradizionale, e quindi nella loro unione, conducono l’Autore, giustamente, a dire (con E2P45Sch) che alle cose, senza che ciò generi alcuna contraddizione, possono essere attribuite due forme d’esistenza: eterna e durevole. In altre parole, aggiungo io, il mondo non è una degradazione dell’eterno, come è detto nel Timeo platonico, così come non è una rappresentazione più o meno fedele di una eternità perfetta, scissa dal mondo stesso. Se è vero quindi che il mondo ci si manifesta inequivocabilmente come divenire e processo, come durata, allora è solo entro questo orizzonte che possiamo raggiungere la realtà delle cose. Quella realtà “ultima” che è già da sempre nella sua manifestazione finita, ed è la correlazione infinita con l’eternità.

Come giustamente scrive Toto, possiamo considerarci “eterni” non malgrado la durata, ma solo perché utilizziamo la nostra condizione di finitezza, per realizzare il nostro intelletto. In questo sforzo, che nel libro si inquadra molto bene e del quale si mostrano i maggiori lati problematici, secondo me sta la grandezza del pensiero di Spinoza. Un pensiero che non relega a follia nichilistica il divenire e che al contrario lo affronta in modo sistematico.

5. Nella conclusione, questa grande processualità del divenire e la sua incombenza, che in modo non certo adeguato molti hanno visto rappresentata dallo spettro del corpo, sembra solo apparentemente lasciare spazio alla vetta mistica dell’Amor Dei. Anche qui l’autore mostra come, sotto più vesti, il corpo continui a giocare un ruolo fondamentale e niente affatto dimenticato da Spinoza (ma non sarebbe stato possibile pensarlo altrimenti, se davvero l’uomo partecipa dell’estensione e del pensiero).

Nell’idea – politica, in fondo – di una relazionalità continua fra Sé e Altro (dove Altro è Dio, ovvero tutte le cose, compresi noi) anche, e soprattutto, nell’analisi dell’Amor Dei, vi è uno dei contributi più significativi del testo.

6. Testo che però deve, a mio avviso, condurre a conclusioni ontologiche diverse da quelle che Toto evidenzia, o che comunque non porta fino alle estreme conseguenze anche per ovvi motivi di spazio e interesse speculativo.

La relazionalità dinamica fra tutte le cose, e quindi fra un singolo e Altro (cioè Dio); fra le varie parti che compongono una essenza singolare, in una sua costante riscrittura; e via dicendo. Così come la sostanziale uguaglianza di ogni cosa, lo sgretolarsi delle gerarchie precostituite, mi portano a pensare che sia inevitabile dire: la sostanza è, effettivamente, le sue modificazioni, giacché Dio non ha che molteplicità in sé. Nella continua produzione di Dio ci si mostra ciò con cui Spinoza deve fare i conti: il divenire e la durata, finita, delle cose. Liquidare troppo rapidamente lo Spinoza-Eraclito, come viene chiamata, estremizzando ovviamente, una delle letture che di Spinoza sono state fatte nel tempo, non ci permette però di capire a pieno l’operazione spinoziana sul divenire, sulla durata, sulle modificazioni e sugli affetti, insomma: sulla vita.

Per svelare l’enigma di questa vita, come diceva Colli nel passo che ho citato in apertura, Spinoza la vita la affronta nella sua continua datità finita, e nel tempo scorge la verità di quel processo.

7. Concludendo: il testo di Francesco Toto rintraccia benissimo questa processualità e storia del corpo e della mente nella loro continua modificazione (sebbene una certa “natura umana” è inferita in modo niente affatto scontata, con tutto il suo carico politico che si porta dietro) e, da lettore, dico che il testo e la sua analisi conducono verso un’interpretazione dell’ontologia spinoziana affine a quella che, in modo schematico, definiamo più eraclitea che parmenidea. Dell’esigenza processuale, relazionale e dinamica, questa definizione ontologica mi sembra quella più direttamente tracciabile dalla lettura del suo testo.

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