Presentazione: “Le lacrime di Spinoza” di Gianfranco Pavone
Si tratta di un romanzo di ambientazione storica che ha tra i personaggi principali il filosofo e molatore di lenti Baruch Spinoza. La vicenda si svolge nel dicembre del 1662 a Rijnsburg, la cittadina olandese nei pressi di Leida dove il filosofo si era trasferito dopo la scomunica da parte della comunità ebraica di Amsterdam. Nella finzione letteraria (un fortuito ritrovamento di una traduzione in latino da un originale olandese andato perduto), il racconto è di Johannes Casearius, un discepolo di Spinoza che soggiornò realmente a Rijnsburg nella stessa casa del filosofo tra il 1662 e il 1663.
Al centro della storia vi sono due ragazzi gemelli, Daniel e Dirk. Abbandonati dalla madre, abitano clandestinamente nella soffitta della casa di un ricco mercante d’arte. Vivono d’espedienti e nell’attesa del ritorno del padre che non hanno mai conosciuto. Nonostante le ristrettezze della loro condizione conducono un’esistenza sognante. Basta poco per accendere il loro entusiasmo: una nevicata, la vista del mare, un piccolo oggetto come il modello in scala di un veliero, custodito dai gemelli come una reliquia. Ed è proprio intorno a questo oggetto che si sprigiona la loro fervida immaginazione. Senza una ragione particolare, essi lo associano al padre e credono, fantasticando, che possa essere la riproduzione della nave su cui si è imbarcato. Proprio per verificare questa ipotesi chiedono aiuto al dottor Homan, il rispettabile medico e chirurgo della cittadina.
La storia si dipana attraverso incontri e conversazioni, non solo tra Spinoza e il suo discepolo Johannes, ma anche tra il filosofo e Niels il macellaio, tra il borgomastro e Josef il fornaio, tra Homan e Spinoza, tra i gemelli e Pim il falegname. Ogni incontro diventa occasione di una verifica per così dire esperienziale, “sul campo”, della filosofia spinoziana, un sistema di pensiero che tra il 1662 e il 1663 è sì in piena gestazione, ma anche ben definito quanto a certi principi. Le conversazioni ruotano intorno al significato delle passioni umane quali l’odio, l’ira, la meraviglia, la speranza. L’invito ripetuto di Spinoza al suo discepolo è quello di attenersi di volta in volta a una rappresentazione chiara e distinta di ciascuna di esse: «Ricordati, caro Johannes: se vuoi avere scienza degli uomini, devi impegnarti a fondo. Non deridere le loro azioni, non compiangerle, non disprezzarle, ma comprendile. E puoi davvero comprenderle solo se consideri gli affetti umani per quello che sono. Non esaltare le passioni degli uomini, e non farne neanche oggetto di biasimo, come se si trattasse di riprovevoli vizi. Piuttosto, impara a considerare l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, il desiderio di gloria e ogni altro moto dell’animo come proprietà inscritte nella natura umana, allo stesso modo in cui il caldo, il freddo, il secco e l’umido sono inscritti nella natura del vento» (p. 37).
Ma è possibile ridurre una passione a un contenuto di conoscenza? È possibile trasfigurare ogni moto dell’animo in un’idea chiara e distinta? È possibile cancellare dall’animo umano ogni sentimento di meraviglia o di speranza? Da queste domande hanno origine le perplessità dei principali interlocutori del filosofo. Osserva Johannes: «Cosa vi è di più incomprensibile del fatto che qualcosa sia comprensibile? Il non sapere genera la meraviglia. Il sapere e il comprendere la accrescono ancora di più. Più conosci, più comprendi, e più è stupefacente come tu possa comprendere qualcosa» (p. 75). Analogamente, il dottor Homan manifesta le sue riserve nei confronti dell’invito del filosofo a vivere «sotto il consiglio certo della ragione» (p. 112), liberandosi da
ogni speranza e da ogni paura. Che cosa può suggerirci la ragione al cospetto delle ingiustizie subite e, soprattutto, al cospetto della morte? «Che cosa può provenirci dalla nostra ragione in casi del genere, se non di accettare questo fatto con rassegnazione o di rifiutarlo con disprezzo? Ma oltre la rassegnazione e il disprezzo esiste un’altra possibilità. Ed è proprio la speranza. Speranza di che cosa? Speranza che i torti saranno riparati, le ingiustizie risarcite, le lacrime asciugate. E se riparazioni e risarcimenti non sono alla nostra portata, se non possono essere il prodotto delle nostre azioni, non è ragionevole sperare che così potrà essere? Dirò in modo più forte: non è ragionevole credere che così dovrà essere? Aprirsi a questa speranza non è forse l’atto supremo di cui è capace la ragione umana?» (pp. 113-114).
Le riflessioni che emergono di volta in volta dai dialoghi si impattano a un certo momento nell’evento tragico e fortuito della morte di Daniel e Dirk, proprio quando nel loro animo si alimentava la speranza dell’incontro con il padre mai conosciuto. Qual è il significato di questo destino impietoso? I personaggi principali dovranno misurarsi con il senso della morte e il bisogno umano di giustizia e di consolazione. La questione che adesso si apre è quella del volto di Dio. Può il Dio di Spinoza costituire una risposta? Alcune perplessità sono già state avanzate dal dotto mercante mennonita Pieter Balling, legato a Spinoza da una sincera e tenera amicizia: «Caro Bento, devi riconoscerlo: il tuo Dio ha il volto di una cieca e inesorabile necessità […] Dolce Bento, occhio del mio cuore, pupilla della mia anima […] al tuo Dio sembra mancare ogni moto di amore. Agendo in ogni cosa dall’interno, è come se imprimesse a tutto il suo eterno sigillo. Significherebbe che tutto è come deve essere. Quanto all’uomo, inghiottito com’è dalla natura, la sua libertà si ridurrebbe a una scialba parola. So già cosa scriveranno contro di te: l’ebreo Spinoza ci priva del conforto delle nostre preghiere, di ogni religiosità e di ogni speranza; il suo Dio è un tiranno incapace di ascoltare e commuoversi; il suo Dio, agendo attraverso le leggi inesorabili della natura, rende gli uomini simili a tronchi inerti e le loro azioni pari ai movimenti meccanici di un orologio, sicché non esistono più malvagità e rettitudine, abiezione e onestà, empietà e santità» (pp. 83-86).
È, tuttavia, nel monologo finale di Josef il fornaio che si condensano le questioni più laceranti cui il Dio di Spinoza non sembra rispondere. Josef e il filosofo sono convenuti al cimitero di Rijnsburg dove, a due giorni dal Natale, si celebra, in modo scarno e a spese della cittadina, il rito delle esequie per i gemelli. Una volta che la fossa è ricolma e che i pochi convenuti se ne sono andati, accanto a quella macchia bruna che sporca il biancore di un giardino innevato restano soltanto Josef, il filosofo e il suo discepolo Johannes. Josef rivendica l’assoluta realtà dell’io. Con tutte le sue domande e tutte le sue sofferenze, l’io non può ridursi a effimera apparenza di qualcos’altro: «[…] se io non sono reale, se i miei ricordi e le mie domande sono soltanto un sogno ingannevole, se voi, caro amico Bento, se anche voi non siete vero e reale con tutte le offese, le ingiurie e le ingiustizie che avete patito, se questi ragazzi non sono stati veri e reali con tutta la loro fervida immaginazione, le loro umanissime speranze, la loro candida allegrezza e il loro brutale destino, allora niente è vero, niente è reale, neanche Dio. E badate, non è reale alcun Dio. Non è reale il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Non lo è neanche il Dio dei filosofi e neppure il Dio di Gesù Cristo. Se io non sono reale, io che vi parlo in questo momento, allora non esistono né domande né risposte, né false opinioni né verità della ragione, né senso né mancanza di senso, né amore né odio, né torto né giustizia. Tramare per un ignominioso delitto o impegnarsi nella costruzione di una luminosa architettura di pensiero avrebbe sempre lo stesso significato. E cioè non ne
avrebbe alcuno» (pp. 154-155). Affermare la necessità del tutto significa consegnare tutto a un’insuperabile fatticità. È questo il senso delle parole di Josef, benché non espresso in questo modo.
Al filosofo che piange e rimane in silenzio Josef rivolge con estrema dolcezza un fraterno invito: «Vi ricordate quante volte nelle nostre conversazioni mi avete ripetuto il vostro intento? Non deridere le azioni degli uomini, non compiangerle e neanche disprezzarle, ma comprenderle. Ebbene, ci sono casi in cui la nostra comprensione delle cose passa attraverso il riso. Comprendiamo gli uomini se riusciamo a ridere, non di loro ma con loro. Quanto può insegnarci un sentimento di gioia comune! E ci sono altri casi ancora in cui comprendiamo gli uomini se riusciamo a piangere con loro, se uniamo le nostre lacrime. Bento, caro amico, riflettete sulle vostre lacrime, riflettete. Le vostre lacrime possono essere più vere della vostra dottrina. E la vostra vita è senz’altro più vera di ciò che avete pensato e scritto. Una volta mi diceste che il compito di ciascun uomo altro non è che comprendere la propria vita in rapporto al tutto. E che cos’è la nostra vita se non attesa di consolazione? Che cosa ci attenderebbe, altrimenti, oltre una fossa come questa? So che da tempo avete abbandonato ogni bene apparente e futile. So che da tempo cercate l’essenziale. Per questa vostra ricerca permettetemi di donarvi il verso di un poeta di cui ignoro il nome. È un verso che potrebbe esservi compagno sulla via. Per me lo è già, specie in circostanze come queste. Alla fine dei giorni solo le lacrime saranno pesate, così recita, scarno, questo verso. Mio Bento, amico generoso e amabile, riflettiamo sulle nostre lacrime» (pp. 157-158).
L’intera storia è filtrata e commentata dal discepolo Johannes che, grazie anche agli eventi di cui è spettatore e protagonista, matura a distanza di tempo una differente posizione umana rispetto al pensiero del maestro: «[…] il mio maestro si era assunto un compito nobile e arduo, e cioè quello di annullare il vento delle passioni, o quanto meno di domarlo, attraverso il lume rischiarante della ragione. Josef il fornaio gli aveva mostrato che è possibile percorrere anche un’altra strada. È possibile, auspicabile e persino più umano anche il contrario. È possibile che il grumo di un sentimento, apparentemente opaco e indistinto, indichi alla ragione una via d’uscita, e la metta al riparo dal rischio di avvitarsi su se stessa. Da dove proviene il nostro desiderio di giustizia? Da dove scaturisce la nostra inquietudine, l’ansia di verità e di compimento? Dove prende forma la nostra sete di bellezza, di affetti buoni e di consolazione? Un Dio che non ha volto, che non salva e non consola, può ancora essere chiamato Dio? Queste domande possono trasformarsi in una luce per la nostra ragione. Così mi aveva insegnato Josef il fornaio. Una luce che filtra a fatica dalla massa densa della nostra esistenza. Un debole lumicino che invoca attenzione. Nulla gli è più nemico di una vita stordita dagli affari e dalle distrazioni. Nulla gli è più esiziale di una ragione che pretende di essere totalmente trasparente a se stessa. A due giorni dal Natale, nel cimitero di Rijnsburg, quel fioco lumicino tremolava sul volto del mio maestro, traluceva a fatica attraverso i suoi occhi gonfi, si rifletteva debole e incerto sull’esile rivolo delle sue lacrime» (pp. 159-160).
Le lacrime di Spinoza risultano dunque più vere delle elaborazioni dottrinali del filosofo medesimo. Il racconto di Johannes ritrae Spinoza con accenti di umanità generosa, sollecito a comprendere il dolore degli uomini, partecipe commosso delle sofferenze e del destino altrui, come quello dei due gemelli di Rijnsburg. Nel contempo, tuttavia, il pensiero del filosofo, la sua dottrina, non sembrano corrispondere esattamente al vissuto dell’uomo. Felice incoerenza! Spinoza, sembra suggerire il racconto, è uno dei casi in cui la non perfetta corrispondenza tra vita e dottrina non è da biasimare ma da imputare a merito. A merito dell’uomo, con rispetto e buona pace del filosofo.
Tags: gianfranco pavone, romanzo
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