Spinoza nel Porcile
E’ proprio lui, Baruch Spinoza, col suo abito nero, il largo collo bianco e la folta capigliatura argentea, come nella più classica iconografia. Così lo fa apparire il regista Massimo Castri nella sua messa in scena del pasoliniano “Porcile”, presentata al pubblico in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma martedì 25 novembre. Prende corpo così non soltanto la citazione filosofica (che è nel testo) ma anche una citazione visiva di Spinoza così come ce lo ricordiamo, con quella sua silhouette impressa nella nostra memoria. Non poteva essere altrimenti. Lo spettacolo di Castri è una raffinato gioco di evocazioni fantastiche, il complesso percorso drammaturgico pasoliniano diventa una favola nera nella quale il bambino figlio di ricchi e potenti industriali preferisce andare nel porcile a fare non si sa bene cosa. E tutto si svolge su un prato inclinato color verde smeraldo (disegnato dallo scenografo Maurizio Balò) con grandi fiori in pannolenci e un cupo fondo di un nero assoluto. Qui tornano a prender corpo gli arditi ragionamenti dell’intellettuale di Casarsa, alle prese con la sua idea di un teatro di poesia, che non racconti storie ma che porti lo spettatore a riflettere. E riflettere, per Pasolini significa creare percorsi concettuali acuminati per poi negarli, contraddirli, affermarli e mostrarne contemporaneamente la corda. Un procedimento logico analitico che forse oggi risulta un po’ faticoso e dall’esito piuttosto scontato, se la tesi di fondo è il marciume della civiltà borghese che spinge l’individuo a rifugiarsi in angoli bui, terribili, animaleschi.Così anche Spinoza abiura al suo razionalismo, si arrende davanti agli istinti oscuri e morbosi del ragazzo, e poi sparisce di scena. Intanto gli adulti in frac indossano maschere da maiali e il giovane trova la morte tra le bestie con le quali aveva condiviso le ore di fuga dalla casa paterna. Con una chiusura che disegna tragiche profezie.
Antonio Audino
Porcile di Pier Paolo Pasolini
diretto da Massimo Castri
Teatro Argentina, Roma
dal 25 novembre al 21 dicembre 2008
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Comments (1)
fogliospinoziano
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La particolarità di questo testo teatrale è che, nella scena decima, compare improvvisamente il filosofo Spinoza, assieme al protagonista del dramma, Julian in una sorta di dialogo tra il sonno e la veglia. La storia, realizzata da Pasolini durante un anno di malattia nel 1966 assieme ad altre 5 tragedie, costituisce un percorso interiore molto interessante, quasi il simbolo del rifiuto di tutto ciò che è borghese, consumista, che sfocia nel ritorno alle origini del protagonista, nel porcile appunto, attraverso il suo sacrificio/suicidio e che vorrebbe significare la compiutezza del corpo senz’anima del protagonista (forse Pasolini) il quale rifiuta l’assegnazione che il mondo gli ha dato, il suo ruolo, la sua posizione e ritorna a ciò che era, nella sua casa, disconosciuto da tutti, diverso, altro, lontano da ciò che dovrebbe essere. Perché allora Julian vede e parla con Spinoza? Perché Spinoza? La scena successiva è la scena finale in cui viene dato per morto il protagonista, mangiato dai maiali, in quel porcile che egli stesso ama, come se intendesse farsi divorare dal mondo che tutti non vogliono, la parte dei reietti, degli emarginati, che comunque ttuto ingloba. Però la sua fine non è ben definita: se i maiali invece avessero divorato Julian perché fa parte della loro natura? Se anziché guardare al sacrificio Julian avesse invece dimostrato, come fa esattamente Spinoza, che il mondo segue regole naturali e quindi era proprio dei maiali mangiare carne perché onnivori? In fondo, corrispondeva alla sensazione del protagonista farsi divorare da quell’oggetto sessuale zoofilico che tanto lo affascinava. In questa sorta di ritorno erotico, Pasolini probabilmente voleva inserire non tanto la sua opposizione alla ragione spinoziana (identificandola con la ragione borghese) quanto invece la presenza del Mondo, della Natura da opporre alla società borghese. conoscenza di Spinoza da parte di Pasolini sembra essere profonda: egli non vede solo l’innovazione della filosofia spinoziana in termini di novità e irrompente rottura con la tradizione classica precedente ma nota anche, nella sua critica alla società borghese, quanto egli abbia cercato di cambiare con le sue opere, in particolare l’Etica, la società del suo tempo. Pasolini va ancora oltre: intuisce che l'”Etica” di Spinoza è prima di tutto un libro che offre un metodo il quale, come il “Tractatus Logico-Philosophicus” di Wittgeinstein si può gettare una volta letto e compreso, assimilandone il contenuto. Il personaggio di Spinoza parla in Porcile dicendo proprio questo: l'”Etica” è prima di tutto un libro, un’esposizione del suo pensiero e, duecento e oltre anni dopo, deve essere stato compreso ed utilizzato. Io non credo che l’abiura che spinoza asserisce nel testo contro la ragione sia un’abiura del pesniero spinoziano in toto, anzi, proprio vedendo la ragione come “ragion borghese” Spinoza non può che dissentire. Nell’assioma della IV Parte dell'”Etica” il filosofo asserisce che c’è sempre, in natura, qualcosa di più forte rispetto a qualcos’altro. e forse questo qualcosa è la natura stessa sull’uomo borghese. Ma siamo nella fine degli anni Sessanta. (G. Croce)
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