INTERSEZIONI – NUMERO 1
intersezioni numero 1
spinoza filosofia pratica vita attiva
a cura di Paola T. Grassi
spinoza filosofia pratica vita attiva
a cura di Paola T. Grassi
Shakespeare e Spinoza
Ecco la prima “intersezione” che presento ai lettori del Foglio. Immediatamente dichiaro che non sono (ancora) in condizione di portare evidenze di una connessione diretta, ci sto lavorando… Ciò che illustro è un’ipotesi che, come anticipato nella presentazione di questa rubrica, aiuta a confermare l’ipotesi hadottiana che la filosofia moderna non si dimentica del filosofare alla maniera degli Antichi, ma al contrario lo alimenta e lo innova. È il caso di questo primo, iperbolico, incontro di modi, quello shakespeariano e quello spinoziano, che, insieme ad altri che percorreremo, prova ad illustrare come, nel Moderno, la filosofia pratica e il filosofare sistematico, nella fattispecie il “sistema” Descartes-Spinoza, attingano l’una dall’altra ed entrino in dialogo con il risultato di produrre nuovi discorsi filosofici.
L’interrogativo di partenza è: «Shakespeare filosofo pratico?». Il mio è un «Sì!» risoluto e passionale che, tuttavia, non si è sottratto alla verifica: qui di seguito provo a ripercorrerne la traiettoria. La mia ipotesi non è solo e soltanto che l’opera di Shakespeare esprima una filosofia intesa come visione del mondo, ma che “frequentare” Shakespeare, ad ogni buona occasione dal palcoscenico, o immaginandone rappresentazioni attraverso la lettura dei copioni, possa dirsi un esercizio di pratica filosofica, cioè a dire l’evoluzione moderna, alla vigilia del secolo di Spinoza, di quelli che Pierre Hadot decise di chiamare “esercizi spirituali”. Ciò che considero elemento determinante è qualcosa di più di un’intenzione, e che definirei un “istinto autorale” a significare, e tradurre in atto, quel criptico «scuotere la scena» nascosto nella firma di Shake-Speare.
Le storie shakespeariane sono storie per il popolo inventate da un uomo del popolo, e che di mestiere faceva l’attore. I protagonisti delle invenzioni shakespeariane divengono, nella comune adesione dal “terreno” del teatro, il ground, alle assi di legno del palcoscenico elisabettiano, delle “icone morali”, di una morale che è un’etica nel più profondo significato (spinoziano) di una trasformazione di sé: sperimentare fino al limite lo scetticismo stoico, se non ascetico di Amleto, amare ragionevolmente, come Beatrice o sconsideratamente, nell’utile visione del negativo, come Ofelia, combattere come Enrico V, sono gesti dell’anima che si insediano nella memoria dello spettatore come modelli cui tendere e che, nel tentativo di essere riprodotti (o anche modificati superandoli) fuori scena da “chi resta in piedi sul terreno del teatro”, i groundlings, creano un modo di essere nel mondo. Le prove, le ragioni amletiche, non si chiamano forse grounds?
Certo, è questo ciò che accade nel teatro in generale, non fosse che il genio di Shakespeare, che è quello di una moltitudine, è giunto ad un questionamento sulle cose del mondo quanto più radicale ad ogni tentativo di risposta. E (quasi) sempre riesce a cogliere la vera natura di ogni singolo movimento dell’anima che intende esplorare.
Shakespeare è filosofo pratico nella misura in cui è profeta come diremmo profeta nel lessico spinoziano. Se è vero che i profeti sono nella interpretazione di Spinoza i portatori attraverso la parola della vera natura delle cose in un linguaggio accessibile al volgo. E se i porta-parola biblici traducevano la verità in immagini ed eventi straordinari per produrre convinzione e memoria nella “mente di primo genere” dei loro destinatari, Shakespeare mette in scena la verità, la rende pubblica. Non solo, ne definisce anche le qualità linguistiche, producendo la lingua di quella moltitudine, l’Inglese del popolo di Elisabetta I che, non a caso appassionata di teatro e di Shakespeare, convertì se stessa in icona vivente della Vergine Maria.
Il «teatro delle passioni» che avverrà teoreticamente nel secolo che inizia quando la vita di Shakespeare sta per compiersi è già avvenuto praticamente sui palcoscenici londinesi ed è pronto per transitare nella deduzione geometrica dell’Etica di Spinoza.
Le storie shakespeariane sono storie per il popolo inventate da un uomo del popolo, e che di mestiere faceva l’attore. I protagonisti delle invenzioni shakespeariane divengono, nella comune adesione dal “terreno” del teatro, il ground, alle assi di legno del palcoscenico elisabettiano, delle “icone morali”, di una morale che è un’etica nel più profondo significato (spinoziano) di una trasformazione di sé: sperimentare fino al limite lo scetticismo stoico, se non ascetico di Amleto, amare ragionevolmente, come Beatrice o sconsideratamente, nell’utile visione del negativo, come Ofelia, combattere come Enrico V, sono gesti dell’anima che si insediano nella memoria dello spettatore come modelli cui tendere e che, nel tentativo di essere riprodotti (o anche modificati superandoli) fuori scena da “chi resta in piedi sul terreno del teatro”, i groundlings, creano un modo di essere nel mondo. Le prove, le ragioni amletiche, non si chiamano forse grounds?
Certo, è questo ciò che accade nel teatro in generale, non fosse che il genio di Shakespeare, che è quello di una moltitudine, è giunto ad un questionamento sulle cose del mondo quanto più radicale ad ogni tentativo di risposta. E (quasi) sempre riesce a cogliere la vera natura di ogni singolo movimento dell’anima che intende esplorare.
Shakespeare è filosofo pratico nella misura in cui è profeta come diremmo profeta nel lessico spinoziano. Se è vero che i profeti sono nella interpretazione di Spinoza i portatori attraverso la parola della vera natura delle cose in un linguaggio accessibile al volgo. E se i porta-parola biblici traducevano la verità in immagini ed eventi straordinari per produrre convinzione e memoria nella “mente di primo genere” dei loro destinatari, Shakespeare mette in scena la verità, la rende pubblica. Non solo, ne definisce anche le qualità linguistiche, producendo la lingua di quella moltitudine, l’Inglese del popolo di Elisabetta I che, non a caso appassionata di teatro e di Shakespeare, convertì se stessa in icona vivente della Vergine Maria.
Il «teatro delle passioni» che avverrà teoreticamente nel secolo che inizia quando la vita di Shakespeare sta per compiersi è già avvenuto praticamente sui palcoscenici londinesi ed è pronto per transitare nella deduzione geometrica dell’Etica di Spinoza.
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